L’attacco di panico non arriva mai da solo. L’attacco di panico si manifesta nella relazione con gli altri, in famiglia, a scuola, a lavoro, nella relazione con sè stessi. È prepotente, non conosce galateo, ci rende impauriti, soli, inappetenti. Perdiamo la voglia dell’altro o ne guadagniamo troppa. Talmente troppa che non ne possiamo più fare a meno. Tutto è influenzato dalle nostre paure, dai nostri pensieri che si ripetono notte e giorno, dalle relazioni che iniziano a dipendere da lui. L’attacco di panico diventa il terzo incomodo. Si intromette talmente tanto nella nostra dimensione individuale e relazionale che non è più possibile per nessuno esserne spettatore. Ma ognuno cerca di affrontarlo, anche a muso duro quando serve o lasciandolo fare, quando si pensa di non riuscire. Il suo pensiero è sempre lì: ci aspetta la mattina quando ci svegliamo, non ci da tregua nelle cose che facciamo, e la notte ci dorme di fianco.
Gestirlo è quasi impossibile, pensarlo è assolutamente devastante.
Lavorare con persone che soffrono di Disturbo da Attacco di Panico significa, in prima battuta, informare in modo dettagliato sulla sintomatologia della persona. Significa raccontare una storia che può riguardare tutti ma essere letta in lingue diverse. Perché, purtroppo, chi ne soffre mostra e racconta di una sintomatologia che è, per tratti comune a tanti, ma per vissuti e significati completamente diversa.
L’incontro con la Terapia Cognitivo-Comportamentale, la Terapia Strategica Breve, la Mindfulness risulta cruciale.
L’informazione, l’insegnamento di strategie per la gestione dei sintomi e l’esposizione a situazioni che la persona evita per la paura dell’insorgenza dell’attacco sono determinanti nella prima fase della gestione dell’attacco.
Ma con chi lo fa la persona?
Chi soffre di attacchi di panico tende a dipendere in modo esclusivo da alcune persone e ad allontanarsi da altre. Generalmente le persone da cui si dipende sono quelle maggiormente in grado di gestire l’attacco e dare soccorso alla persona al momento della comparsa. Sono madri, padri, nonni, partner e qualche amico e collega. Amici e colleghi “selezionati”, comprensivi, accudenti e “preparati”. Molto spesso, se questa catena non si interrompe tempestivamente, accade che si costruiscano relazioni esclusive di dipendenza con l’altro. E’ per questo che, in una seconda fase della terapia, quando la persona ha imparato tecniche di gestione del disturbo e non lo teme più, è importante sciogliere eventuali modalità relazionali di dipendenza ed isolamento conseguenti l’insorgenza del disturbo. Perché se è vero che si stabiliscono relazioni esclusive, è altrettanto vero che si evitano incontri con persone “non preparate” a gestire l’attacco in caso di comparsa. Questo isolamento relazionale è fonte di sofferenza della persona, una sofferenza che è necessario affrontare in terapia per la ricostruzione del benessere.
Chi soffre di attacchi di panico, spesso con un basso livello di autostima, ricerca continuamente la presenza di quelle poche persone selezionate ad affrontare il disturbo, ma al tempo stesso diventa sempre più evidente l’isolamento sociale e relazionale in cui la persona con disturbo da attacchi di panico tende ad inserirsi. Questa polarità relazionale viene vissuta in modo devastante non solo dalla persona che soffre, ma anche e soprattutto, dalle persone chiamate a gestire insieme a lei il disturbo.
E’ per questo motivo che, spesso a fronte di una richiesta di terapia individuale, laddove sia possibile, vengono invitate in terapia le figure di attaccamento significative della persona, per non farla sentire sola, e soprattutto, per aiutarla nella costruzione dei significati del sintomo. Costruzione che, insieme all’aver appreso nuove modalità di gestione del sintomo, porterà non solo alla remissione dello stesso ma alla direzione di una nuova strada di cambiamento, di una nuova strada di benessere.